Al di là della Tristezza, la SperanzaCi sono fratelli che rischiano di perdere la speranza, di cadere nella disperazione.
Abbiamo sempre notizie di gente che cade nella disperazione e fa cose brutte…
Il riferimento è a chi è scoraggiato, a chi è debole, a chi si sente abbattuto dal peso della vita e delle proprie colpe e non riesce più a sollevarsi.
In questi casi, la vicinanza e il calore di tutta la Chiesa devono farsi ancora più intensi e amorevoli, e devono assumere la forma squisita della compassione, che non è avere compatimento: la compassione è patire con l’altro, soffrire con l’altro, avvicinarmi a chi soffre; una parola, una carezza, ma che venga dal cuore; questa è la compassione.
Questo è quanto mai importante: la speranza cristiana non può fare a meno della carità genuina e concreta.
Lo stesso Apostolo S. Paolo, nella Lettera ai Romani, afferma con il cuore in mano: «Noi, che siamo i forti – che abbiamo la fede, la speranza, o non abbiamo tante difficoltà – abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi» (15,1).
Portare le debolezze altrui.
Questa testimonianza poi non rimane chiusa dentro i confini della comunità cristiana: risuona in tutto il suo vigore anche al di fuori, nel contesto sociale e civile, come appello a non creare muri ma ponti, a non ricambiare il male col male, a vincere il male con il bene, l’offesa con il perdono – il cristiano mai può dire: me la pagherai!, mai; questo non è un gesto cristiano; l’offesa si vince con il perdono –, a vivere in pace con tutti.
Questa è la Chiesa!
E questo è ciò che opera la speranza cristiana, quando assume i lineamenti forti e al tempo stesso teneri dell’amore.
L’amore è forte e tenero.
E’ bello. Si comprende allora che non si impara a sperare da soli.
Non è possibile.
La speranza, per alimentarsi, ha bisogno necessariamente di un “corpo”, nel quale le varie membra si sostengono e si ravvivano a vicenda.
Questo allora vuol dire che, se speriamo, è perché tanti nostri fratelli e sorelle ci hanno insegnato a sperare e hanno tenuto viva la nostra speranza.
E tra questi, si distinguono i piccoli, i poveri, i semplici, gli emarginati.
Sì, perché non conosce la speranza chi si chiude nel proprio benessere: spera soltanto nel suo benessere e questo non è speranza: è sicurezza relativa; non conosce la speranza chi si chiude nel proprio appagamento, chi si sente sempre a posto…
A sperare sono invece coloro che sperimentano ogni giorno la prova, la precarietà e il proprio limite.
Sono questi nostri fratelli a darci la testimonianza più bella, più forte, perché rimangono fermi nell’affidamento al Signore, sapendo che, al di là della tristezza, dell’oppressione e della ineluttabilità della morte, l’ultima parola sarà la sua, e sarà una parola di misericordia, di vita e di pace.
Papa Francesco - Udienza generale di mercoledì 8 febbraio

Ultimo aggiornamento (Lunedì 13 Febbraio 2017 06:44)